Anche i delfini soffrono di Alzheimer

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Intelligenti e curiosi, amano interagire con i propri simili e spesso anche con l’uomo. I delfini ci somigliano, più di quanto pensiamo… nel bene e nel male. Sono infatti l’unica specie selvatica al mondo in cui è stata riscontrata una forma di Alzheimer simile a quella umana. Un modello “naturale” che ha riscosso l’interesse degli scienziati, aprendo un filone di ricerca sull’Alzheimer che aiuterà a contrastare la malattia anche negli esseri umani.

Delfini sulle spiagge

Cosa porta un delfino a perdere l'orientamento e arenarsi sulle spiagge? Confusione, annebbiamento, perdita del senso dell’orientamento: sono i segni tipici della neuro degenerazione. Non è solo un’ipotesi: analizzando i cervelli dei delfini spiaggiati lungo le coste di Spagna e Stati Uniti, i ricercatori hanno individuati le lezioni proprie della malattia di Alzheimer.

Nel mondo sono circa 46,8 milioni le persone malate di Alzheimer, più di un milione solo in Italia:  un numero destinato purtroppo ad aumentare. I sintomi non riguardano solo la perdita di memoria, ma anche il disorientamento spazio-temporale, lo stesso che porterebbe i delfini a scambiare il mare aperto con la spiaggia. Se ne parla dal 2017, ma sono seguite conferme lo scorso anno e persino pochi mesi fa. Sembra proprio che anche i delfini soffrano di Alzheimer e di una forma che somiglia moltissimo a quella umana, molto più rispetto ai modelli animali usati in laboratorio (topi, ratti, macachi).

Perché è un buon modello

L’interesse per i delfini nasce perché sono la prima specie selvatica in cui è stata osservata l’Alzheimer. Sono animali che si ammalano spontaneamente, vivendo nel proprio  habitat, esposti ad un mix di sostanze e contaminanti ambientali che potrebbero costituire un pericolo anche per la nostra salute. La malattia si presenta in una forma simile a quella umana, mentre i modelli sperimentali usati fino ad ora avevano solo una parte delle caratteristiche in comune con l’uomo. Osservando il cervello dei delfini malati, al contrario, si possono apprezzare le tipiche lesioni che ciascun neurologo ha imparato a riconoscere nei propri pazienti con Alzheimer. Stiamo parlando delle placche di beta amiloide e dei grovigli neuro-fibrillari di proteina tau. Così sono definiti in gergo scientifico gli aggregatici proteici insolubili che si accumulano nel cervello, danneggiando le strutture neuronali.

Un’arma importante

Disporre di un simile modello è un’arma importante. Anche se in un’altra specie, la malattia si presenta con le stesse caratteristiche: possiamo quindi ripercorrere la sua patogenesi, monitorarne la progressione e persino individuare dei fattori di rischio. Ad esempio, in uno studio pubblicato di recente, i ricercatori dell’università di Miami hanno scoperto che l’esposizione a una tossina prodotta dalla alghe, la β-metilamino-L-alanina, potrebbe correlare con la malattia. Che sia tossica anche per l’uomo? Non lo sappiamo ancora, ma lo scopriremo con successivi esperimenti e nel frattempo possiamo comunque minimizzare l’esposizione.

Erika Salvatori

Fonti:

Davis, D.A. et al. (2019). PLoS One14

Gunn Moore, D. et al. (2018) Alzheimer and dementia.

Alzheimer, Delfini

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